Gli anni 90

Nel 1989, il C.d.A. della Casa di Riposo svolse un’analisi sulle condizioni della struttura, la quale risultava anche destinataria di un contributo statale (ex art. 20 legge finanziaria n° 67 del 1988) che prevedeva a Pontelongo la costruzione di una nuova Residenza Sanitaria Assistenziale (R.S.A.).

In seguito all’approvazione del primo progetto tecnico, l’organo di governo dell’Istituzione valutava la necessità di far fare alla struttura un “salto di qualità”, perché le sfide che si profilavano all’orizzonte erano tali da non consentire più una gestione dei soli problemi correnti, ma occorreva spendere energie per programmare nel tempo esigenze strutturali ed esigenze organizzative dei servizi.

Contestualmente, l’ Ente doveva affrancarsi dall’immagine negativa che in quegli anni connotava le Case di Riposo, considerate, spesso non a torto, strutture chiuse, autorefrenziali, in cui era meglio evitare di entrare.
L’immaginario collettivo, dunque, e quello degli anziani in particolare, concepivano la Casa di Riposo come l’ultima spiaggia per quelle persone che non potevano far affidamento su una famiglia che potesse accompagnarli durante la vecchiaia.
La composizione della famiglia “post patriarcale” da un lato, sempre più costituita di un solo nucleo, con limitato numero di figli, e il processo di invecchiamento patologico dall’altro, determinavano così per molte persone la necessità di poter contare su un servizio che potesse fornire alternative all’abbandono o al mancato soddisfacimento dei bisogni più complessi.
Erano però anche gli anni in cui molte strutture per anziani non ritenevano di doversi impegnare in favore delle persone non autosufficienti, se non per coloro che maturavano questa condizione essendo già all’interno della Casa di Riposo.
Anche da questo punto di vista la Casa di Riposo, tranne alcune eccezioni, ha sempre ritenuto di rivolgersi anche alle persone in condizione di non autosufficienza, in quanto la Direzione di allora (Rag. G. Nizzardo), pur “a scavalco”, aveva anticipato la riconversione delle Case di riposo sempre più verso i bisogni che non potevano essere posti a carico della famiglia o dei servizi domiciliari.
In questi anni, inoltre, il C.d.A., decide di orientare i servizi dell’ Ente sul territorio e nell’anno 1990, dava avvio (a decorrere dal 1 febbario 1991) alla convenzione con il Comune di Pontelongo per la gestione del servizio domiciliare e con i comuni circostanti (Arzergrande, Correzzola, Codevigo) per il servizio di fornitura di pasti caldi per anziani. Nello stesso periodo veniva approvata la convenzione per la fornitura di pasti caldi in favore degli Ospiti della Casa di Riposo “Umberto I” di Piove di Sacco, e il servizio è stato erogato fino al 1999.
La Casa di Riposo intraprendeva, così, la strada di “apertura” al territorio, divenendo un rilevante interlocutore per la gestione coordinata di servizi sociali, anche ad integrazione sanitaria.
Il C.d.A., da poco insediato e presieduto dal Presidente Tapparello, (composto dai consiglieri Francesco Battisti, Benvegnù Ferdinando, Ossari Federico e Simionati Roberto) ritenne che la complessità della struttura e gli scenari futuri postulassero la necessità di poter disporre di un Segretario-Direttore a tempo pieno, in grado di presidiare i rilevanti cambiamenti del settore.
Dopo l’indizione e lo svolgimento del pubblico concorso il C.d.A. assumeva il sottoscritto in veste di nuovo Segretario-Direttore in ruolo e prendevo servizio il 1° febbraio 1991, iniziando un’avventura ancora oggi in corso.
Una delle preoccupazioni di quegli anni era anche controvertire, per quanto possibile, la visione esterna della Casa di Riposo, che non doveva più essere vissuta come “lazzaretto” per anziani vergognosamente abbandonati dalla famiglia, ma, come era in realtà, un centro di servizio in grado di rispondere a tutte le necessità proprie della condizione anziana.
la presidenza Tapparello, durata in tutto un decennio abbondante, si caratterizzò, pertanto, per una scelta forte: costruire la nuova R.S.A. finanziata dallo Stato attraverso la Regione Veneto, ispirare la riorganizzazione dei servizi al principio di “qualità”.
Da notare che in quel tempo il dibattito sulla “qualità” aveva ancora contorni confusi per la condizione degli anziani. Per la cultura del paese, ad esempio, la qualità aveva una connotazione prevalentemente alberghiera, e pertanto, si concepiva il bisogno dell’anziano come bisogno di alimentazione, di igiene e di vicinanza nel momento finale della vita.
Ciò ha comportato anche un’iniziale difficoltà a comprendere la presenza (e quindi anche il costo) di alcune figure professionali che non facevano rientrare il loro contributo nel servizio “alberghiero”: era il caso delle Infermiere Professionali, ad esempio, presenti in struttura in contingenti sempre più corposi, per poter far fronte ai bisogni sanitari sempre più accentuati, lo stessi dicasi per la figura della Fisiokinesiterapista, per quella della Psicologa e della Logopedista. L’effetto fu anche quello di complicare l’entità della retta di degenza posta a carico degli anziani, dei loro familiari o degli Enti Pubblici (Comuni) obbligati, in quanto la stessa si faceva carico di tutti i maggiori costi. Ma aumentava anche l’entità delle entrate (in particolare del contributo regionale corrisposto per i non autosufficienti), consentendo all’ Ente di adottare una politica gestionale espansiva, di sviluppo.
Il nuovo Direttore ereditava, pertanto, una realtà evoluta, ben organizzata e con una situazione economica buona, connotata da un fermento culturale e politico difficilmente riscontrabile in altre zone della regione, e ha potuto così dare il proprio contributo allo sviluppo della struttura e delle sue attività, partendo con i migliori presupposti.
In particolare quello che ho riscontrato da subito, e con una certa sorpresa, è stata la piena fiducia nella mie possibilità e nel futuro dell’Istituzione, accoglienza che mi ha fatto comprendere le aspettative che il paese intero riponeva nella Casa di Riposo.
Subito, quindi, con il Presidente, si iniziò il completamento delle assunzioni di personale previste nella dotazione organica, portando così “a standard” il numero delle professionalità operanti in struttura.
Il rispetto dei parametri regionali, a quel tempo, erano considerati un atto di lungimiranza politica e gestionale, spesso infatti non venivano puntualmente osservati dalle strutture e questo ha costituito per i giovani vertici dell’Ente un’apertura di credito nei confronti del personale e delle loro rappresentanze sindacali.
Ciò costituì la premessa per la riqualificazione dei servizi, per la radicale riorganizzazione del lavoro e dei rapporti tra lavoratori e utenti, concepiti da subito come veri e propri clienti, portatori di diritti soggettivi esigibili e non più come persone che dovevano accontentarsi di ciò che l’ ente riusciva a dare loro. La cultura del “diritto” iniziava così ad affermarsi, sostituendosi gradualmente alla cultura dell’assistenzialismo, che proprio in quegli anni dimostrava con forza i propri limiti.
Nel 1991, il contributo per la realizzazione della nuova struttura subiva dei ritardi e veniva poi bloccato nel triennio successivo, sconvolto dal fenomeno di corruzione politica ed amministrativa noto come “tangentopoli” che, di fatto, ha bloccato per anni l’iter dei finanziamenti statali per le Opere Pubbliche.
Ma nello stesso anno la Regione Veneto deliberò di includere tutte le Case di Riposo allora comprese all’interno dell’ U.L.S.S. n° 17 (Piove di Sacco, Conselve, Monselice e Pontelongo) all’interno di un progetto finanziato per implementare un approccio di servizio agli anziani che fosse orientato a produrre servizi qualitativi.
Prese così avvio il “Progetto Laertes”, definito in collaborazione con l’ Università di Padova e con la società di consulenza manageriale “Emme&Erre”, incentrato su:

  • la valutazione multidimensionale della persona anziana;
  • il lavoro per progetti.

La valutazione multidimensionale costituiva, per quegli anni, una sorta di rivoluzione copernicana per i nostri servzi, abituati a valutare solo i bisogni conclamati o quelli individuati dal personale.
Il progetto finanziato dalla Regione, invece, prevedeva che le strutture aderenti avviassero una metodologia di valutazione del bisogno partendo dall’assunto che la persona è composta di molteplici dimensioni: oltre alla dimensione fisica e delle sue menomazioni, vi era quella psicologica, quella relazionale, quella mnemonica, quella economica, eccetera. Tutte le “dimensioni” della persona venivano prese in esame, perché il “benessere”, secondo la definizione data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, è dato dall’equilibrio di tutte le componenti.
Altro principio fondamentale della Valutazione Multidimensionale sperimentata nella Casa di Riposo consisteva nel fatto che il soggetto individuato come primo “valutatore” non era un “tecnico” specializzato, ma era il personale di assistenza, quel personale, cioè, che aveva relazioni continue con l’ospite che assisteva e con il quale passava la parte prevalente del tempo lavorativo.
Questo elemento provocò non poche reazioni di contrarietà, in quanto alcuni professionisti ravvisavano una volontà di esclusione dalla fase valutativa. La Direzione della Casa di Riposo su questo elemento fondò uno dei suoi cardini organizzativi: affidare la valutazione multidimensionale agli Addetti all’Assistenza consentiva di “avvicinare” il personale che oggi è definito con un inglesismo “di front line”, alle esigenze della persona ospite. La diretta conoscenza costituisce il primo elemento per la condivisione di una lettura dei problemi e dei bisogni della persona utente e, quindi, base per la motivazione ad intraprendere un lavoro che non è più deciso in una sede direzionale e poi lasciato nella sua mera esecuzione al personale di assistenza.

In questo modo, allora, si eliminò, e non solo a livello di principio, ma in pratica, la struttura verticistica esistente tra chi sa fare analisi e chi deve fare
assistenza. Così è stato possibile da subito unificare le visioni sui nostri anziani, discutendo, magari con forza, prima di iniziare l’attività, ma trovando risposte più unitarie e non contraddittorie in seguito.
Inoltre, la Direzione ha ritenuto che questo “superamento” delle professionalità sino ad allora ritenute “basse” rispetto a quelle più “alte” (es. quella del medico, della psicologa, ecc.), oltre ad aver abbattuto barriere e pregiudizi, ha nobilitato la figura di queste ultime professionalità, le quali mantenevano intonse le loro prerogative diagnostiche: l’Addetto all’Assistenza “fotografava” la situazione nel suo complesso, la conosceva direttamente e inziava a proporre delle possibilità di intervento che lo motivavano ad occuparsi della “salute globale” della persona, e lasciava al tecnico la possibilità di fare tutti gli approfondimenti diagnostici del caso, indagando cause e conseguenze dei bisogni e degli stati di disagio.
Il lavoro per progetti ha poi completato il quadro: partendo dalla valutazione multidimensionale della persona era possibile confrontarla con le effettive possibilità delle risorse umane di lavorare non più perché l’organizzazione aveva stabilito una giornata “tipo”, connotata da un insieme routinario di prestazioni, ma giudati dagli “obiettivi di salute” che ci si proponeva di conseguire con l’Ospite.

Il lavoro per progetti ha reso, pertanto, possibile:

  • di evitare di concepire il lavoro in struttura come un insieme ripetitivo di mansioni;
  • le attività da realizzare venivano così programmate (pianificazione strategica), definite “nero su bianco”, per tutto il personale (evitando così le differenze di intervento lasciate unicamente alla discrezionalità del lavoratore);
  • le attività assumevano una connotazione “sperimentale”: non vi erano più verità professionali “dogmatiche”, ma tutto doveva essere sperimentato e solo in una fase successiva (dopo la conferma della correttezza e della sostenibilità dell’azione) portato a regime;
  • le attività venivano continuamente ridiscusse rispetto alla loro capacità di produrre o meno un valore di salute;
  • le attività non erano più standardizzate e ripetute all’infinito fino al decesso della persona ospite, ma personalizzate nei modi di realizzazione e costantemente verificate, per essere confermate o modificate;
  • l’organizzazione del lavoro non è stata più definita dai vertici che chiamavano poi a realizzarla gli Operatori di Assistenza, ma veniva progettata, realizzata, verificata e, quindi, confermata o corretta, da tutte le risorse umane coinvolte.

Le risorse umane coinvolte avevano poi delle occasioni di incontro e di lavoro che a quel tempo chiamavamo “équipe multiprofessionale”, presiedute dal Direttore in quanto Responsabile dell’organizzazione e composte da tutte le figure più rappresentative per i casi trattati.
Ma già durante la fase sperimentale del progetto, la Direzione e la sua “squadra” di lavoro avevano registrato alcuni significativi cambiamenti culturali all’interno della struttura e delle realzioni in essa presenti.
Un esempio significativo è coglibile sul versante dei rapporti tra i lavoratori del servizio: tutti gli equilibri organizzativi e di potere fino ad allora consolidati venivano messi in discussione: non si prendevano più decisioni per “ruolo” ma per “competenza”: Acquisiva rilevanza il “saper fare” e il “saper rispondere” realmente ai bisogni. Ciò modificava, e per sempre, i rapporti tra le risorse umane, più tutelate in quanto l’elemento di discrimine non erano più gli ordini del “capo” di turno, ma la capacità di rispondere ai bisogni dell’utenza e l’intelligenza nel trovare soluzioni effettive, che avevano una ripercussione immediata nelle condizioni di benessere delle persone da noi assistite.
L’altro punto cardine di cambiamento si registrava sul versante dei familiari, che inziavano a non sentire più parlare dei problemi organizzativi, ma dei bisogni specifici, “personali”, appunto, del proprio caro, traendo la consapevolezza che il servizio conosceva dettagliatamente la persona che si proponeva di assistere e si poneva il dovere di “rendere il conto”, sia sulle cose fatte che sui risultati conseguiti con quelle cose.
Ovviamente, occorreva anche intraprendere un atteggiamento di collaborazione con la famiglia di origine dell’assistito, non più vista come elemento di disturbo, ma come reale risorsa, da cui trarre conoscenze e con cui confrontarsi costantemente.
Le verifiche compiute in quegli anni con i familiari, con le risorse umane coinvolte, con l’U.L.S.S., riuscirono a dimostrare che gli impegni assunti venivano rispettati, oppure, quando si dovevano registare delle “defaiances” nelle nostre azioni, l’Ente si presentava senza nascondimenti o scusanti, impegandosi, direi contrattualmente, a risolvere diversamente il problema.
Ciò modificò da subito l’immagine della Casa di Riposo, sia tra i lavoratori che tra Ospiti e loro familiari. Avvicino molto parti che sino a quel momento si erano concepite come antagoniste, contrapposte e anche gli amministratori, quasi tutti abitanti nel paese, avevano riconoscimenti pubblici per la via intrapresa.
Inoltre, dopo aver prodotto alla Regione Veneto i risultati del progetto (abbandonato da due strutture su quattro) questa metodologia di lavoro è stata tradotta in un atto legislativo rilevantissimo e oggi in vigore in tutto il territorio regionale: la Deliberazione di Giunta Regionale n° 2034 del 1994, che ufficializza per tutti i servizi sociali il “lavoro per progetti” e la valutazione multidimensionali.
L’aver realizzato dei principi di moderna assistenza è stato motivo di orgoglio per la struttura, divenuta così ispiratrice di un modello di intervento in grado di esprimere una capacità effettiva di umanizzazione dei servizi residenziali.
Il modello è stato anche recepito dal legislatore nazionale nel 2000, in sede di approvazione della nuova legge di riforma dell’assistenza.La legge “Turco” (L. n° 328/ 2000), che prende il nome dall’allora Ministro del Welfare, rende obbligatorio il lavoro per progetti, posto come metodologia organizzativa a garanzia della “esigibilità” del diritto alla salute.